INTERVISTA A STEFANO SAVONA – REGISTA DI TAHRIR

Pubblicato il da Valentina Calabrese

Si celebra in questi giorni il secondo anniversario della rivoluzione pacifica che in Egitto ha fatto cadere il governo di Hosni Mubarak. Una vittoria faticosa, vinta grazie al popolo del Cairo che il 25 gennaio del 2011 è sceso in piazza Tahrir, presenziando giorno e notte fino alla caduta di Mubarak. Tahrir Square diventa così il simbolo della necessità di libertà e di spazio politico da parte dei cittadini egiziani. Quello che è venuto dopo è visto in maniera contraddittoria, sia fuori sia dentro l’Egitto. Dopo che, l’11 febbraio Mubarak lasciò il potere, gli successe un governo militare provvisorio, che guidò il Paese fino alle prime elezioni post rivoluzione, nel giugno 2012, dove ad averla vinta, fu Mohamed Morsi, leader del partito dei Fratelli Musulmani, il movimento integralista forse più antico e autorevole del mondo sunnita. Un partito intransigente, ma forse non così fondamentalista come immaginiamo, paragonabile alla Democrazia Cristiana italiana. Il presidente Morsi, in prima battuta, ha mostrato apertura all’estero e una buona capacità di mediazione, ma il popolo egiziano non ha smesso di protestare per la costituzione di un Egitto democratico. Morsi ha così sospeso la Corte Suprema e ogni altra autorità impossessandosi di tutti i poteri. Il vicepresidente Mekki ha preso le distanze dal presidente dando le dimissioni e l’Esercito ha mostrato la sua potenza facendo capure che i militari potrebbero riprendere in mano la situazione da un momento all’altro. Morsi nel frattempo, sostituisce il ministro dell’economia e quello degli interni, accusati di essere troppo deboli nel difendere il governo. Rafforza i limiti alla stampa e, soprattutto, consente alla polizia l’uso delle armi contro la folla. Di recente sono stati più di cinquanta i manifestanti uccisi. Un bilancio vergognoso per chi afferma di voler difendere la rivoluzione pacifica di piazza Tahrir. Il Paese è in trepidazione: chi nel 2011 ha affrontato la morte per far cadere la dittatura, oggi non si accontenta di parvenze di democrazia.

In molti hanno documentato questa rivoluzione, giornalisti, documentaristi, filmaker, tutti erano presenti al momento della rivoluzione e i telegiornali di tutto il mondo ci hanno informato a dovere. Poi però arriva Tahrir, Liberation Square, e hai l’impressione di non aver mai visto niente di simile. Il regista Stefano Savona è stato dieci giorni e dieci notti nella piazza del Cairo, ha sopportato il freddo, la fame e la stanchezza con i protagonisti stessi della storia. Così facendo, ha realizzato una cronaca in tempo reale della rivoluzione, seguendo in particolare tre tra milioni di manifestanti; due ragazzi, Ahmed e Elsayed e una ragazza Noha. Vivono nelle tende a Tahrir Square e non abbandonano la piazza, per nulla al mondo.

Stefano Savona pedina letteralmente Nora, Ahmed, Elsayed, mentre discutono di democrazia e cercano di creare una costituzione dell’Egitto, mostrando la vita di un popolo, quello egiziano, straordinariamente compatto, vivace, incontenibile nella sua energia e nell’illusione di un futuro democratico. 90 minuti di inedita passione, dibattiti e vita nella piazza, tutti sono eroi e tutti sono eroine, tralasciando volutamente i sanguinari scontri che ovviamente esistono, ma che diventano solo uno scenario storico.

Vincitore del David di Donatello 2012 e del Nastro d'argento nel 2012, il film di Stefano Savona ha partecipato in selezione ufficiale ad alcuni fra i più importanti Festival del mondo fra i quali la Viennale 2011, il DocLisboa 2011 e il Festival di New York e lunedi' 21 gennaio Tahrir, Liberation Square è stato presentato alla Casa del Cinema di Roma in occasione del Doc/it Professional Award in qualita' di film in concorso per diventare il Miglior Documentario Italiano dell'Anno.

Noi de L’ItaloAmericano c’eravamo e abbiamo avuto il piacere di intervistare il regista Stefano Savona, e saperne di più sul suo progetto.

  • Come è nato il documentario? Perché hai deciso proprio di raccontare di questa rivoluzione?

La mia passione per l’Egitto nasce quando, vent’anni fa, studiando egittologia all’Università, ho visitato l’Egitto. È stato uno shock conoscere quel paese nel 1991, ed è stato lì che ho capito che il mio destino non era quello dell’archeologia ma quello di raccontare storie. La mia vocazione di documentarista è nata lì. Per questo motivo ho sempre sentito il bisogno di tornare in Egitto, per riflettere, per prendere ispirazione ma, non ero mai riuscito a trovare l’idea giusta per una storia sull’Egitto, fino a Tahrir. Quando la rivoluzione è iniziata, non potevo evitare, non potevo sottrarmi a questo progetto. In più fare un film sulla rivoluzione era un altro dei miei sogni, perciò era inevitabile che appena saputo dello scoppio della rivolta, sia partito. Sono arrivato il 5° o 6° giorno della rivoluzione; ho portato con me la macchina fotografica più piccola che avevo per non dare nell’occhio ma, grazie al caos del momento, la polizia non mi ha bloccato e sono arrivato diritto verso la mia meta: piazza Tahrir.

  • Come è nato il rapporto con i rivoluzionari e perché hai deciso in particolare di raccontare di questi tre ragazzi?

Quando sono arrivato nella piazza, sembrava che il più era fatto, ma in realtà non era così; dovevo capire come volevo raccontare questa storia, cosa volevo aggiungere a un fatto storico che già in moltissimi,giornalisti e non, stavano narrando. Il mio punto di vista, in quanto italiano, sia pure appassionato di Egitto, non era abbastanza, dovevo quindi incarnare il mio sguardo in quello di alcuni protagonisti del luogo. Dovevo raccontare come le persone hanno fatto questa rivoluzione, come l’hanno vissuta. L’obiettivo era dunque quello di mettersi accanto ai personaggi e vivere le loro emozioni, desideri e paure. Ho incontrato subito i tre protagonisti, i primi che avevo istintivamente voglia di seguire, li ho seguiti. Inizialmente è stato tutti istintivo, non potevo riflettere a lungo. Sono stato fortunato perché le esperienze dei miei precedenti documentari mi hanno dato la razionalità di affrontare le decisioni giuste. In due settimane ho quindi fatto il film che avete visto.

  • Come è stato fare un film a presa diretta sul reale? Avevi un’idea prima di iniziare?

No. E non era facile averla, perché in quel momento, come dicevo, è l’istinto a muovere le tue azioni. Al tempo stesso, però, devi essere in grado di restare concentrato, nonostante i rischi, sullo specifico del lavoro, mettere a fuoco, avere un buon audio, seguire le persone giuste, immaginarsi il montaggio. Il film è stato girato in assoluta solitudine, quindi suono, immagine, regia, rispondono al tentativo di fare qualcosa che valga il rischio.

  • Come convivi in queste occasioni con la consapevolezza di rischiare tanto?

I rischi fanno parte del gioco. Il vero rischio cosciente è quello di non riuscire a fare il film. Il rischio fisico diventa una stupidaggine se poi non riesci a raccontare la tua storia.

  • Nel tuo documentario, si nota un interesse maggiore per l’organizzazione della piazza e i suoi protagonisti, più che per gli scontro violenti con la polizia. Perché?

Avevo capito fin dall’inizio che quello che mi interessava era il movimento di ribellione degli uomini della piazza, quello che loro pensavano e che stavano vivendo. Gli scontri erano la parte meno interessante, perché uno scontro è perfettamente uguale a qualsiasi altro. I momenti di confronto e di discussione sono forse la parte più importante di tutto il film. La piazza non andava mai a dormire e la sera, al termine degli scontri ovunque ti girassi c'erano dibattiti continui. Ognuno parlava di cosa si doveva fare per il paese, ognuno si confrontava sui grandi temi dell'Egitto, e questa è la cosa fondamentale. Ogni notte vedevi cittadini egiziani che per decenni non avevano potuto esprimersi per la paura di essere puniti, e che finalmente si riappropriavano di uno dei diritti fondamentali dell'uomo, è stato come vederli respirare di nuovo.

  • Pensi che il popolo italiano sia in grado di ribellarsi come è successo in Egitto?

Se la rivoluzione è stata plausibile in Egitto lo sarebbe dovunque. Però in Italia, il benessere e l’idea democratica che ci governa, fa sentire meno la necessità di scendere in piazza.

  • Il tuo film è stato presentato in molti Festival, anche negli U.S. al New York Film Festival, hai notato una reazione differente rispetto all’Italia ad esempio?

No, in particolare perché il Festival al quale siamo stati ospiti era proprio il New York Film festival, ossia un festival per veri appassionati di cinema con tanti documentari selezionati, e con molti partecipanti che provenivano dala Columbia University e quindi molto interessati delle alle politiche. Per questo la mia esperienza a New York è stata una delle più formative. Molte facoltà hanno comprato il film, per questo Tahrir Liberation Square è stato il mio primo documentario che ha ricevuto un certo riscontro negli Stati Uniti. Inoltre è stato proiettato nel periodo di Occupy Wall Street, perciò era forte il collegamento all’attualità e molti lo mettevano in evidenza guardando il film. Definitivamente delle esperienze più appaganti.

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